Renna sullo stupro alla Villa: ‘No generalizzazioni’

L'arcivescovo in piazza Stesicoro: "Non tutti gli immigrati sono violenti" VIDEO

Seppur in grave ritardo, il fercolo di Sant’Agata è giunto in piazza Stesicoro. Nella rituale sosta prima della salita dei Cappuccini, l’Arcivescovo di Catania, monsignor Renna, ha rivolto un messaggio alla città. Ecco il testo integrale.

“Carissimi fratelli e sorelle,

permettete, all’inizio di questo messaggio, di volgere il nostro pensiero ai Paesi che sono in guerra, a coloro che in Ucraina, a Gaza e in molte parti del mondo stanno vivendo conflitti che si stanno rivelando vicoli ciechi. Nei giorni in cui godiamo della gioia della festa e della concordia, non possiamo non desiderare lo stesso clima di fraternità per tutti i popoli della Terra. Stiamo continuando a sperare e pregare affinché nasca nei cuori di tutti il desiderio di percorrere vie di riconciliazione, e che Dio susciti operatori di pace; perciò ripetiamo le parole del nostro Maestro e Signore: «Beati i miti, perché possederanno la terra. […] Beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,5.9).

Un riferimento alla cronaca della nostra città risulta necessario: la vicinanza alla giovane fatta oggetto di violenza la sera di martedì scorso da un gruppo di suoi coetanei nella villa Bellini. Ti siamo vicini, cara nostra concittadina, e ti invitiamo a non perdere la fiducia nella vita e negli altri. A quei giovani, sette ragazzi di nazionalità egiziana, sento di dire che la donna va amata e rispettata, e non trattata come un oggetto così come una cultura erotizzata di dimensione mondiale insegna. All’opinione pubblica dico che il delitto commesso da questi giovani immigrati non ci deve portare a generalizzazioni, perché lo sappiamo che non tutti gli immigrati sono violenti, come non lo sono anche tutti i giovani italiani. La violenza va sempre condannata; la persona che ha sbagliato va messa nelle condizioni di non sbagliare più.

Cari cittadini e pellegrini, i santi abitano le nostre città: non sono dei personaggi che ogni tanto fanno capolino per prendersi qualche ovazione e qualche applauso. Dal 1126 le reliquie di sant’Agata, nel sacello della Cattedrale, sono accanto ai cittadini che la riconoscono come sorella nella fede e testimone di quel Signore che dona agli inermi la forza del martirio. Non è una semplice statua preziosa quella di sant’Agata, ma il busto reliquiario che il mio predecessore, il vescovo Maurizio, fece realizzare nel 1376: lì ci sono le spoglie di una donna che non è un mito o una leggenda, ma una martire che insieme alle donne e agli uomini che non hanno barattato con privilegi la loro fede in Cristo, sono rimasti semplicemente fedeli alle loro scelte. Dal 1126 sant’Agata “abita” con la sua città e le ispira fede e forza; le ha permesso di superare momenti gravi di crisi e ha fatto sì che si potesse sempre rialzare e ricostruire. Davvero lei è la donna forte davanti alla quale uomini e donne, persone di ogni età, di ogni condizione sociale, con il sacco o senza sacco, si affidano con fiducia a Dio e la sentono loro concittadina. Sono i poveri coloro che ricorrono a lei con maggiore fiducia; sono le donne violate nella loro dignità che la vedono come colei che può capirle; coloro che lottano per la giustizia vedono in lei l’emblema della fortezza.

SANT’AGATA E I SANTI CI INSEGNANO AD ABITARE LA CITTÀ

Come ha abitato la sua città, come è vissuta tra la sua gente sant’Agata? Dalle notizie che abbiamo emergono due tratti su cui ci fa bene ritornare. Quando Quinziano la fa arrestare, si trova davanti una donna vestita in maniera modesta, quasi da schiava, pur essendo di famiglia benestante, sia perché Agata in quanto cristiana non era una donna vanitosa, sia perché si era consacrata a Dio. Ella non faceva dipendere la sua bellezza da un’estetica vuota, ma dalla sua prossimità ai poveri, che per i credenti in Cristo sono i prediletti. Possiamo dire che sant’Agata viveva accanto alla gente di ogni condizione ed incarnava quella fraternità che nasce nel cuore di chi considera Dio come suo Padre e il prossimo come fratello. Un’altra sua caratteristica è che non fugge dalla sua città, pur sapendo di andare incontro al pericolo di perdere la vita. Come si vive oggi in una città? Si può vivere ricercando ciò che è esclusivo, creandosi dei luoghi belli e inaccessibili dove solo alcuni possono godere di una certa qualità di vita, o si può vivere in condizioni degradanti, nelle quali è appena sicurato l’essenziale. Le nostre città rischiano di rinnovare la parabola che Gesù Cristo ci narra nel vangelo secondo Luca: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla porta coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco» (Lc 16,19-21). Nelle città questi divari ci sono e credo che papa Francesco abbia fatto bene a riconoscere che ci sono sia periferie geografiche, quelle che riguardano interi quartieri, sia quelle esistenziali, che possiamo trovare in ogni luogo e riguardano emarginazione e povertà di ogni tipo. Con lo stesso papa, sogniamo che le distanze tra i luoghi del ricco epulone e quelli del povero Lazzaro siano superate.

Così ci invita a sognare papa Francesco: «Come sono belle le città che superano la sfiducia malsana e integrano i differenti, e che fanno di tale integrazione un
nuovo fattore di sviluppo! Come sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano, mettono in relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro!» (EVANGELII GAUDIUM, 210): queste sono le grandi sfide di ogni cittadino e della politica. Mentre come Chiesa di Catania diciamo tutta la volontà di collaborare con l’Amministrazione Comunale, con lo Stato, e con tutto il mondo dell’Università e della Scuola perché siano superati i divari che a volte vedono la nostra città in vetta a tristi primati, come la dispersione scolastica, vogliamo indicare un modello di vita per non fuggire dalla nostra realtà, per riabitare Catania in modo nuovo. Questo modello deve far fronte alla fuga e alla rassegnazione di chi dice: «Siamo fatti così, non si può cambiare!». È la cattiva narrazione sulla quale tanti si soffermano, e che fa dire al massimo: «Cambiare tutto per non cambiare niente». Usciamo dall’immobilismo e dalla rassegnazione, perché queste frasi possono essere degne di una buona letteratura, ma non di chi segue il Vangelo ed è un uomo o una donna che vogliono essere alla ricerca della giustizia e della dignità. Il Vangelo non è letteratura: quelle reliquie di sant’Agata, nel busto reliquiario e nello scrigno, ci dicono che sono una storia che può cambiare il corso degli eventi. Il Vangelo non ci consente di fuggire dalle nostre responsabilità. Se non ci fosse stata la storia di questo martirio a Catania – e badate che non è un mito da interpretare in modo esoterico – la nostra città sarebbe un’altra cosa e non avrebbe un così grande punto di riferimento come sant’Agata.

UN MODELLO DI VITA CHE CAMBIA LA STORIA: IL «PADRE NOSTRO».
Miei cari concittadini, un vero cristiano attinge la forza e il progetto della sua vita dalla preghiera. Si potrebbe dire: «Dimmi cosa chiedi a sant’Agata e ti dirò che tipo di uomo o donna sei». Dio, e sant’Agata che intercede per noi, non possono ascoltare chi chiede vendetta; il Signore Gesù non può ascoltare chi gli domanda il male del prossimo; la nostra preghiera non può limitarsi ad una visione individualistica della vita. Gesù Cristo, insegnandoci a pregare, ci ha consegnato il «Padre Nostro», che uno scrittore cristiano dei primi secoli, Tertulliano, ha definito «il riassunto di tutto il Vangelo». Chi prega così rimane ancorato fortemente alla sua fede e ai progetti di Dio, anche se sottoposto al martirio che vuole rinnegare la sua fede. Lo sapevano anche i giovani formati dal beato Pino Puglisi al quartiere Brancaccio di Palermo: «Il Padre Nostro ci ha fatti uscire dal “guscio” di una fede vissuta in maniera esclusivamente intimistica, dalla diffidenza verso l’altro, e ci ha spinto a rischiare» (I FUCINI DI PALERMO, 27/10/1993).

Quando diciamo «Padre», riconosciamo che Dio ha quel volto misericordioso che ci ha rivelato suo Figlio Gesù; quando aggiungiamo «Nostro» siamo come chiamati a guardarci attorno e a scoprire che gli altri, tutti, proprio tutti, sono fratelli. Afferma papa Francesco «Neppure l’uguaglianza si ottiene definendo in astratto che “tutti gli esseri umani sono uguali”, bensì è il risultato della coltivazione consapevole e pedagogica della fraternità. Coloro che sono capaci solamente di essere soci, creano mondi chiusi […]. La mera somma degli interessi individuali non è in grado di generare un mondo migliore per l’umanità» (FRATELLI TUTTI, 104-105).

Il «Padre Nostro» ci insegna a chiedere che sia glorificato il nome di Dio e non il nostro; che venga il suo regno di pace; che si realizzi la sua volontà di salvezza per tutto l’uomo e per tutti gli uomini. La preghiera di Gesù ci aiuta a vedere ai bisogni della città in maniera fraterna. In ogni comunità umana c’è bisogno di pane, ossia di risorse per la sussistenza e per il benessere: il pane quotidiano che chiediamo nella preghiera è quello che non viene accumulato nelle mani di pochi, ma viene condiviso attraverso un giusto salario, attraverso contratti equi con i lavoratori, mediante politiche sociali che promuovano opportunità lavorative. Il «Padre Nostro» ci insegna a chiedere perdono a Dio e a donare perdono ai fratelli: la riconciliazione è il banco di prova più esigente della fraternità, che non consente di avere dei nemici, e se ci dovesse capitare di averli, ci chiede di amarli e pregare per loro. Infine, chiede a Dio di liberarci dal maligno che si insidia in vari modi nella vita sociale, crea strutture di peccato che sono quelle della corruzione delle amministrazioni di vari enti, delle organizzazioni criminali, delle dipendenze di ogni tipo che svuotano di responsabilità la vita di tante persone attraverso droghe, alcool, gioco. A Dio Padre chiediamo di non abbandonarci nella tentazione
di rassegnarci, ma di continuare ad abitare la città e le relazioni da persone responsabili.

ABITARE DA CITTADINI CORRESPONSABILI LA NOSTRA CATANIA
Da chi inizia la responsabilità? Da noi che in questi giorni gridiamo: «Cittadini, viva sant’Agata!», dai cristiani che pregano il «Padre Nostro» e sentono che esso impegna a vivere secondo quello che è il riassunto di tutto il Vangelo. Le comunità parrocchiali, quelle religiose, le associazioni e i movimenti, sentano di dover vivere secondo lo stile del «Padre Nostro». Da dove cominciare, quindi? Sarebbe facile dire: «dai politici», ma temo che parlare solo di loro ci faccia dimenticare che in un paese democratico tutti si devono sentire corresponsabili. Per questo dico a tutti: «Non fuggiamo dal nostro ruolo di protagonisti della vita sociale, rinunciando a pensare, a votare e lasciandoci invece guidare ciecamente dove altri vogliono portarci». Uno dei rischi del nostro tempo è il populismo che «si muta nell’abilità di qualcuno di attrarre consenso allo scopo di strumentalizzare politicamente la cultura del popolo […]. La categoria di popolo invece è aperta. Un popolo vivo, dinamico e con un futuro rimane costantemente aperto a nuove sintesi assumendo in sé ciò che è diverso» (FRATELLI TUTTI, 159-160).

Perciò riscopriamoci popolo che costruisce la sua città attraverso un “noi” comunitario; partecipiamo alla cura delle nuove generazioni, dei vostri figli. Che frequentino la scuola, ve lo ripeto ancora! Che frequentino scuole che assicurino loro lavoro, in una città nella quale si sta investendo sulle nuove tecnologie. Partecipiamo a renderla bella e dignitosa, perché Catania è città da abitare, nella quale accogliere pellegrini e turisti, nella quale integrare immigrati. Abitiamola tenendola pulita, rendendola più bella a partire dal nostro quartiere, e sentiamo che alcune zone a lungo tralasciate sono parte della nostra città e non vanno cancellate, ma rigenerate. Il volto di Agata ci chiede di abitare la sua e nostra città con amore, con quella carità che «è al cuore di ogni vita sociale sana e aperta» (FRATELLI TUTTI, 184). La carità non è solo un atto di elemosina, ma si esprime in un’amicizia e una solidarietà da vivere nella nostra città. Si tratta di cambiare passo, di uscire da diffidenze e forse anche da tanti modi di fare, nascosti e “sottobanco”. Le persone che agiscono con amore nella città, papa Francesco li chiama «poeti sociali, cioè seminatori di cambiamento, promotori di un processo in cui convergono milioni di piccole e grandi azioni concatenate in modo creativo, come in una poesia» (FRATELLI TUTTI, 144). Sant’Agata è vissuta da sorella dei poveri a Catania, non è fuggita dal pericolo in quel febbraio del 251, e da allora ha scritto il primo rigo della poesia vera di questa città. E ci insegna che solo la fraternità salverà Catania!”

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