“Non ho ucciso il piccolo Di Matteo”

I verbali dell'interrogatorio del boss Messina Denaro: "Non mi pento"

Nel giorno del ricovero in ospedale dell’ex boss latitante Matteo Messina Denaro, emergono le sue dichiarazioni rilasciate nell’interrogatorio dopo la cattura, il cui verbale è stato depositato oggi, nel quale nega di aver commesso stragi e omicidi e di aver trafficato in droga, ma ammette di aver avuto una corrispondenza con il capomafia Bernardo Provenzano. “Io non mi farò mai pentito”, dice senza esitazioni Messina Denaro interrogato dal procuratore di Palermo Maurizio De Lucia e dall’aggiunto Paolo Guido. “Non voglio fare il superuomo e nemmeno l’arrogante, voi mi avete preso per la mia malattia”, ha detto ancora ai pm. Il capomafia ha raccontato che fin quando ha potuto ha vissuto rinunciando alla tecnologia, sapendo che sarebbe stato un punto debole. Ma poi ha dovuto cedere.

Ai magistrati, per spiegare il cambio di passo sulla gestione della latitanza il 13 febbraio scorso ha citato il proverbio ebraico: “Se vuoi nascondere un albero piantalo in una foresta”. “Ora che ho la malattia e non posso stare più fuori e debbo ritornare qua…”, si è detto dopo aver scoperto di avere il tumore “allora – ha raccontato – mi metto a fare una vita da albero piantato in mezzo alla foresta, allora se voi dovete arrestare tutte le persone che hanno avuto a che fare con me a Campobello, penso che dovete arrestare da due a tremila persone: di questo si tratta”. Ma, ha precisato, in paese in pochi conoscevano la sua vera identità. “A Campobello mi sono creato un’altra identità: Francesco”. “Giocavo a poker, mangiavo al ristorante, andavo a giocare”, ha spiegato. Una vita normale per passare inosservato.

“Io mi sento uomo d’onore ma non come mafioso. Cosa nostra la conosco dai giornali”, ha detto ancora Matteo Messina Denaro nel lungo interrogatorio. “La mia vita non è stata sedentaria, è stata una vita molto avventurosa, movimentata”, ha detto ammettendo la latitanza e di aver comprato una pistola, ma di non averla mai usata e di non aver fatto omicidi e stragi. “E lei non ha mai avuto a che fare Cosa nostra?”, gli chiedono i magistrati. “Non lo so magari ci facevo affari e non sapevo che era Cosa nostra”, risponde. “Quali reati ha commesso?”, lo incalzano. “Non quelli di cui mi accusano: stragi e omicidi. Non c’entro nella maniera più assoluta. Poi mi possono accusare di qualsiasi cosa, io che ci posso fare”.

Rispondendo ai pm che gli chiedevano di Andrea Bonafede, accusato di essere un uomo d’onore riservato e di aver prestato al padrino l’identità, il capomafia critica sia la definizione di uomo d’onore riservato sia il concorso esterno in associazione mafiosa: “Il mafioso riservato è tipo un altro argomento di legge, se vogliamo dire, farlocco, come il ‘concorso esterno’, io preferirei, se fosse una mia decisione: tu favorisci… il favoreggiamento prende da 4 a 5 anni, se favorisci un mafioso sono 12 anni; meglio così: si leva il farlocco di torno”.

Poi, parlando dell’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito rapito e sciolto nell’acido, senza esitazioni Messina Denaro ha dichiarato: “Una cosa fatemela dire. Forse è la cosa a cui tengo di più. Io non sono un santo… ma con l’omicidio del bambino non c’entro”. “Lei mi insegna che un sequestro di persona ha una sua finalità, che esclude sempre l’uccisione dell’ostaggio, perché un sequestro a cosa serve? A uno scambio: tu mi dai questo e io do l’ostaggio; il sequestro non è mai finalizzato all’uccisione – spiega il boss -. Sequestrano questo bambino (quindi io sono come mandante, mandante del sequestro), lui (Giovanni Brusca ndr) non dice che c’ero io”.

“A un tratto lui resta solo in tutta questa situazione, passa del tempo, un anno/due anni, dice si trova davanti a televisione e il telegiornale dà la notizia di… che lui era stato condannato all’ergastolo per l’uccisione dell’esattore Ignazio Salvo, ci siamo?”, spiega. A quel punto secondo la narrazione di Messina Denaro, Brusca, fuori di sé per la condanna all’ergastolo per l’omicidio Salvo, decreta la morte del bambino. “Ma… allora, a tutta coscienza – dice Messina Denaro – se io devo andare in quel processo, che è ormai di Cassazione, devo andare per sequestro di persona. Quindi a me perché mi mettete – non voi, il sistema – come mandante per l’omicidio, quando lui dice che poi non ci siamo visti più?”. “Decise tutto lui, per l’ira dell’ergastolo che prese – conclude -. E io mi sento appioppare un omicidio, invece secondo me mi devono appioppare il sequestro di persona; non lo faccio per una questione di 30 anni o ergastolo, per una questione di principio. E poi a tutti… cioè loro lo hanno ammazzato, lo hanno sciolto nell’acido e alla fine quello a pagare sono io? Cioè, ma ingiustizie quante ne devo subire?”. I pm tornano a chiedergli se c’entri nella vicenda e lui ribadisce di no.

Commentando la chat audio in cui, fermo nel traffico per le commemorazioni della strage di Capaci, imprecava, audio inviato a una paziente con cui faceva la chemioterapia durante la latitanza, Messina Denaro ha detto ai pm: “Io non è che volevo offendere il giudice Falcone, non mi interessa… Il punto qual è? Che io ce l’avevo con quella metodologia di commemorazione. Allora, se invece del giudice fosse stato Garibaldi, la mia reazione sempre quella sarebbe stata, perché non si possono permettere di bloccare un’autostrada per decine di chilometri: cosi vi fate odiare”.

“Vivo bene di mio, di famiglia. Mio padre era un mercante d’arte”, ha detto il boss ai pm di Palermo che gli chiedevano se avesse mai trafficato in droga. Il padre del capomafia, Francesco Messina Denaro, padrino di Castelvetrano, è morto da latitante ed è ritenuto uno dei fedelissimi dei corleonesi di Totò Riina. “Io sono appassionato di storia antica da Roma a salire – racconta il capomafia ai magistrati – poi mio padre era mercante d’arte e dove sto io c’è Selinunte (sito archeologico del Trapanese ndr). Mio padre non è che ci andava a scavare però a Selinunte a quell’epoca c’erano mille persone e scavavano tutte. In genere il 100% delle opere le comprava mio padre che poi venivano vendute in Svizzera e poi arrivavano dalla Svizzera dovunque: in Arabia, negli Emirati e noi vedevamo cose che passavano da mio padre nei musei americani”.

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