“A Catania tassi altissimi di devianza minorile”

Inaugurazione anno giudiziario: 'Legame con abbandono scolastico'

CATANIA – Il distretto di Catania “si segnala come uno dei territori più esposti dal punto di vista della devianza minorile, che matura in contesti altamente degradati e spesso controllati dalla criminalità organizzata, per di più con un apparato amministrativo assai carente in termini di servizi di prevenzione e accompagnamento pedagogico”. Così il presidente della Corte d’appello etnea, Filippo Pennisi, nella sua relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario. “Gli altissimi tassi di devianza minorile – aggiunge il magistrato – vanno letti anche in correlazione agli allarmanti dati dell’abbandono scolastico che nella città metropolitana di Catania si attesta intorno a una percentuale del 25,2%”. Un dato che, assieme ai numeri della devianza giovanile, “pone la città a livelli di primato nazionale, addirittura prima tra le quattordici città metropolitane”.

Ma il presidente Pennisi rileva che “tuttavia, anche su impulso del Tribunale e della Procura per i minorenni, in accordo con le pubbliche amministrazioni competenti, sono state sviluppate e attuate nuove strategie di intervento, a partire dalla costituzione di un Osservatorio di monitoraggio della condizione minorile, che fin dalle prime riunioni ha posto al centro della propria attenzione il tema della dispersione scolastica, e dalla sottoscrizione di un protocollo d’intesa per la rimodulazione delle modalità di erogazione del cosiddetto reddito di cittadinanza, con lo specifico obiettivo di vincolare i relativi trasferimenti monetari alla frequenza scolastica dei minorenni figli dei beneficiari ovvero alle condizioni fissate nel patto di inclusione dei percettori”.

Inoltre, con il protocollo ‘Liberi di scegliere’, nel periodo in esame, “quattro donne appartenenti a organizzazioni criminali di vertice hanno deciso di aderire ai percorsi di tale progetto e scelto di essere aiutate ad andare via dalla Sicilia con i figli minorenni, proprio allo scopo di sottrarli a un destino ineluttabile; una di loro ha addirittura deciso di accettare il programma di protezione e, pertanto, è stata sottoposta alle speciali misure tutorie previste per i collaboratori di giustizia”.

Pennisi traccia poi un bilancio sulle risorse a disposizione nel distretto etneo: “I buoni risultati, addirittura ottimi in alcuni settori, conseguiti nell’anno giudiziario da tutti gli Uffici del distretto e fin qui illustrati non possono fare dimenticare, o, peggio, indurre a sottacere, che sono stati ottenuti con risorse umane e materiali ridotte, in contesti logistici e tecnologici spesso precari. E neanche nella più deteriore, e non condivisa, visione aziendalistica del mondo della Giustizia statale sarebbe accettabile la pretesa alla pienezza di risultati laddove si registrassero, come nel nostro distretto, percentuali medie di scopertura di oltre il dodici per cento per l’organico di magistratura, di circa il venti per cento per il personale amministrativo e di quasi il cinquanta per cento per quell’altro personale, tecnico e amministrativo, che ancora oggi contribuisce, pur con tutti i limiti illustrati in questa relazione, a raggiungere gli obiettivi cui il Paese si è impegnato nell’ambito del Piano straordinario di Ripresa e Resilienza, approvato dagli organi comunitari nel corso del 2021 e che ha individuato, come principale linea d’intervento nel campo della giustizia, il potenziamento della struttura organizzativa denominata ‘ufficio per il processo'”.

“E così da alcuni decenni – osserva il presidente Pennisi – occorre fare i conti con caotici testi legislativi, contenenti riforme più o meno epocali, di regola a invarianza finanziaria, che spaziano dal campo sostanziale ai meccanismi processuali a, financo, gli assetti ordinamentali, ciascuna celebrata come panacea dell’annoso problema dei ritardi dell’amministrazione della giustizia, in realtà con inevitabili sovrapposizioni, possibili incongruenze, problemi interpretativi e di diritto intertemporale, laddove l’unica misura realmente efficace per garantire la ragionevole durata dei processi è, molto semplicemente, quella di dotare gli uffici giudiziari dei mezzi necessari e sufficienti a compiere il loro dovere, che è quello di rendere giustizia al comune cittadino”.

“Consapevole che il lamentato disordine normativo deriva anche dalla complessità del momento politico e sociale, l’Ordine giudiziario ha mantenuto e mantiene grande capacità di adattamento o, come oggi si usa dire, di resilienza, dimostrata dai buoni risultati conseguiti anche nel mezzo di tali disorientamenti normativi”, aggiunge Pennisi. “Più preoccupanti e insidiosi appaiono piuttosto altri tentativi di riforma, di tanto in tanto affioranti, e sono quelli che mirano a mettere in discussione principi costituzionali in materia di amministrazione della giustizia, in parte coincidenti con quei principi generali la cui modifica ne lacererebbe il tessuto. E’ così tornato d’attualità il dibattito sulla separazione delle carriere dei magistrati, che per vero non avrebbe più una vera ragione d’essere per l’assoluta residualità dei casi di passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti, e viceversa, specie dopo che le ultime modifiche apportate dalla recente riforma ordinamentale lo hanno praticamente limitato a uno solo, nell’arco dell’intera carriera del magistrato”.

“Non senza chiedersi – osserva il presidente Pennisi – quale possa essere l’utilità del divieto di passaggio quantomeno dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti, occorre riflettere anche sul fatto che una separazione formale delle due carriere, con concorso e formazione separati tra giudici e pubblici ministeri, rischierebbe di avviare un processo politico che potrebbe giungere fino a privare quest’ultima figura di quei caratteri di organo di legalità che nell’attuale sistema processuale gli impone, come assolutamente condivisibile, di svolgere accertamenti anche in favore dell’indagato e, se del caso, di chiederne l’assoluzione”.

“Molto più saggia – segnala il presidente della Corte d’appello di Catania – sembrerebbe allora una riforma che per il neo magistrato, nominato in esito all’unico concorso, dopo il rituale periodo di tirocinio ‘senza funzioni’ e per un ulteriore congruo periodo di tempo (che potrebbe coincidere con quello necessario al superamento della prima valutazione di professionalità), preveda di completare la sua formazione professionale in funzioni esercitate presso un collegio giudicante, ove egli avrebbe modo di maturare l’attitudine al confronto dialettico e di attenuare spinte autoreferenziali, prima di consentirgli la scelta (questa sì, unica e definitiva) di conferma delle funzioni giudicanti o di assunzione di quelle requirenti”.

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