La “cura” di monsignor Renna

L'Arcivescovo di Catania cita Battiato nella sua omelia

L’omelia di mons. Luigi Renna, Arcivescovo metropolita di Catania, in occasione della festa estiva di Sant’Agata, pronunciata nel corso della Santa messa che ha preceduto la processione del busto reliquiario, è un appello a tutti i fedeli, affinché vengano illuminati dalla parola di Dio e dal sacrificio di Sant’Agata. Mons. Renna parla delle relazioni umane che a volte vengono deturpate dalla violenza e si trasformano in femminicidio: “No, quello non è amore: è violenza e va denunciata. E se uno veste il sacco e usa violenza alla moglie, sappia che fa un oltraggio non solo a sua moglie, ma a Sant’Agata: deve convertirsi”. Poi si appella ai siciliani, dicendo loro di lasciarsi alle spalle la rassegnazione del Principe di Salina presente nel romanzo ‘Il Gattopardo’ e spiegando: “I siciliani vogliono la qualità della vita e hanno smentito quella frase, con i loro Pino Puglisi, Rosario Livatino, Piersanti Mattarella, Pippo Fava e Biagio Conte”. L’Arcivescovo cita anche Franco Battiato e la sua Cura, invitando tutti a prenderci cura di noi stessi, degli altri e della vita sociale: “La cura di noi stessi non è una forma di narcisismo, ma di attenzione al nostro rapporto con Dio, la cura degli altri è soprattutto rivolta a coloro verso i quali abbiamo delle responsabilità di primo piano, i nostri familiari. La cura della vita sociale è una quanto mai necessaria in una città che ha vissuto molte emergenze e criticità”.

Di seguito, il testo integrale.
“Carissimi fratelli e sorelle in Cristo,
nel cuore dell’estate facciamo memoria della traslazione delle reliquie di sant’ Agata e chiediamo al Signore, per intercessione della nostra Martire, ogni bene per la nostra città e per l’umanità intera. La Parola di Dio e il racconto della Passione di sant’ Agata ci illuminano in modo particolare su ciò che è necessario per la nostra vita di credenti. Abbiamo ascoltato nella prima lettura un brano degli Atti degli apostoli, che ci narra del prodigio operato da Pietro e Giovanni alla Porta Bella del Tempio di Gerusalemme: mentre stanno per varcare la soglia del Tempio li ferma un paralitico che chiede loro l’elemosina. Pietro risponde che non ha né argento né oro da dargli, ma piuttosto la potenza che viene dal Signore Gesù; quindi lo prende per mano e lo guarisce nel nome del Signore. L’apostolo Pietro, a cui Gesù Cristo ha affidato il compito di confermare nella fede i suoi fratelli, così dà inizio ai miracoli che, in continuità con quelli narrati dal vangelo secondo Luca, confermano la predicazione della Chiesa e sostengono nella fede i credenti in mezzo a persecuzioni e difficoltà di ogni tipo. Come non rileggere alla luce di questo brano della Scrittura l’episodio narrato nella Passione di Sant’ Agata, nel quale, alla nostra giovane Martire, prostrata dai supplizi e orribilmente mutilata di una mammella, in carcere appare un uomo anziano, che professa di essere un medico. Vuole curarla, ma Agata rifiuta ogni soccorso umano, dicendo: “Ho il mio Signore Gesù Cristo che cura con un solo suo cenno ogni cosa e con la sola sua parola fa risorgere i morti. Egli se vuole, può risanare me, indegna serva” E sorridendo il vecchio: ed è stato proprio lui a mandarmi. Io sono il suo Apostolo. Guardati che sei già risanata. Dette queste cose, improvvisamente disparve dai suoi occhi” (….)

Finita la preghiera, mirando il suo corpo, e le piaghe risanate, s’accorse di avere avuta restituita mammella.” San Pietro che fa camminare uno storpio nel nome di Cristo e restituisce l’integrità al corpo torturato di Agata. E’ quello che la Chiesa e ogni cristiano continuano a fare: prendersi cura, non tanto con cospicue risorse, ma con la carità che Cristo ispira e sostiene. E’ questo un momento storico in cui l’umanità è ferita da mali che la fanno sanguinare: la guerra in Ucraina che imperversa da molti mesi, la morte di molti migranti che cercano di raggiungere l’Europa su mezzi di fortuna, il cambiamento climatico che costringe ad una revisione degli stili di vita e di sicurezza. Tali emergenze richiedono che come Pietro ci prendiamo cura di ciò che Dio ci ha affidato, i nostri fratelli e il creato. Ma oggi vogliamo volgere lo sguardo alla nostra Catania, consapevoli delle sue ferite e con la fiducia che il Signore si prende cura di lei. Noi sentiamo sant’ Agata come una sorella maggiore che ha fede in Dio quando confessa che ha come medico il Signore Gesù, e guardiamo a San Pietro, a colui che guarisce nel nome di Cristo: costui è un modello da imitare, non per riporre fiducia solo nelle forze, ma in quelle interiori che ci vengono dalla fede, dalla speranza e che si traducono in carità. Prenderci cura: di noi stessi, delle relazioni familiari, delle relazioni sociali. E’ la stessa sollecitudine del Buon samaritano che papa Francesco ha invitato ad avere a noi battezzati e a tutti gli uomini e le donne di buona volontà nella enciclica Fratelli tutti; è quella cura coltivata nella mitologia nata sulle sponde del Mediterraneo, nella filosofia, persino nell’opera di un artista contemporaneo della nostra terra, canta una promessa: “ Ti libererò dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo, dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai”.

La cura di noi stessi non è una forma di narcisismo, ma di attenzione al nostro rapporto con Dio e di vigilanza sui nostri sentimenti, perché siano sempre animati da fede e da carità, mai da un amore smodato del proprio “io” che diviene egoismo e inquina le migliori intenzioni: un filosofo contemporaneo ha affermato che l’uomo non è un essere che ha cura, ma che è cura, perché la cura è anzitutto un modo di essere. Trovare nella nostra vita lo spazio per dialogare con Dio, per nutrirci del cibo solido della Sua Parola, saper vivere serenamente quel discernimento che mette da parte ciò che può far male a noi e agli altri, sono gli esercizi più nobili che può fare il nostro cuore. E’ bello elevare le nostre ovazioni a Sant’ Agata, quasi gridare con impeto la nostra devozione; ma è ancora più bello raccogliersi in preghiera silenziosa e celebrare i sacramenti di salvezza, soprattutto quel sacramento che ci guarisce interiormente dal peccato, la confessione. Cura di sé è anche dare tempo agli altri, cura del cuore e dell’intelligenza, che dice: “Non voglio né argento, né oro, Signore. Nel nome di Gesù Cristo il Nazareno voglio darmi la possibilità di crescere come persona umana, come cristiano, come uomo e donna che hanno una vocazione unica e irripetibile”.

La cura degli altri è soprattutto rivolta a coloro verso i quali abbiamo delle responsabilità di primo piano, i nostri familiari. A volte vediamo deturpate le relazioni con forme di violenza che ci fanno chiedere se sono state messe in atto da cristiani ed essere umani: sono le forme estreme che scaturiscono ad esempio in minacce e percosse verso la propria moglie, in femminicidio, uxoricidio, omicidio di una persona con la quale si stava vivendo una relazione che con leggerezza si chiama amore. No, quello non è amore: è violenza e va denunciata. E se uno veste il sacco e usa violenza alla moglie, sappia che fa un oltraggio non solo a sua moglie, ma a sant’ Agata: deve convertirsi. Voglio ancora ritornare però sulla cura dei genitori verso i figli più piccoli. Lo scorso anno ho visitato molte scuole del territorio della nostra Arcidiocesi, ed ho potuto constatare la dedizione dei dirigenti e degli insegnanti, la lungimiranza della prefettura e dello stato, lo sguardo delle mamme che nelle scuole di periferia vorrebbero un futuro diverso per i loro bambini. A volte queste buone intenzioni sono bloccate dalla mancanza di cura o, peggio, da un veleno che uccide il futuro dei nostri ragazzi: quando si trascura di mandarli a scuola, quando soprattutto alle ragazze, in prospettiva di un matrimonio o di una gravidanza che arrivano anche a quindici anni, vedono finire la loro adolescenza per colpa di genitori poco attenti anche nel fare discernimento sulle persone che le frequentano; che per un gioco poco responsabile, quello di una sessualità che invece va vissuta al momento giusto e con la persona giusta, rimangono invischiate in una relazione che può diventare una prigione senza sbarre. Dobbiamo prenderci cura dei nostri ragazzi: anche gli oratori dovrebbero riaprire tutti e noi, sacerdoti, suore ed educatori, stare un po’ più con loro, non importa se in strutture all’avanguardia o povere. L’educazione è relazione, non è fatta da progetti faraonici. Quanta cura si sta avendo, da parte di tutti, ma quanta se ne può avere di più!

Quanta cura dovete avere cari genitori: se lo scorso anno vi ho chiesto di far indossare il grembiule di scuola ai vostri piccoli, e non solo il sacco, quest’anno vi supplico di prendervi cura dei ragazzi nell’età più delicata, quella della scuola media ed adolescenziale: fate sì che non brucino il loro futuro, soprattutto se sono ragazze. Un genitore dovrebbe dire: “ Anche se non ho oro e argento, ho la ricchezza dignitosa di un amore che si prende cura dei figli: li sottraggo alla strada, alla droga, li faccio studiare, li aiuto ad allontanare amicizie che non gli fanno bene e che avrebbero anch’esse bisogno di cura. Lo faccio in nome di Gesù Cristo, mi prendo cura come San Pietro si prese cura di sant’ Agata, con l’amore di padre e di madre che è la mia vocazione.

La cura della vita sociale: è una quanto mai necessaria in una città che ha vissuto molte emergenze e criticità. Credo che le situazioni di disagio delle settimane di fine luglio ci insegnino anzitutto l’umiltà di chi sa anche chiedere scusa in ciò che non può funzionare o addirittura è imprevedibile. Ma occorre recuperare anche una dimensione sociale da recuperare, che è quella della partecipazione, del sentire la Città come propria. In vista della 50ma Settimana Sociale dei Cattolici in Italia, dal tema “Al cuore della democrazia. Partecipare tra storia e futuro”, è stato preparato un documento, in cui si dice tra l’altro: “Partecipazione è sempre un campo di azione, plurale, collettivo, comunitario, vitale, generativo, espressione di un “noi comunitario” E’ un campo (…) dove nessuno può chiamarsi fuori dalle responsabilità condivise, ma deve poter mettere in gioco i suoi talenti per il bene del quartiere”. Ci prendiamo cura delle relazioni sociali? Esse passano dalla cura della cosa pubblica: se uno lega il suo impianto elettrico a quello pubblico, compie un furto agli altri, a quelli che pagano le tasse. Come può dirsi cittadino di Catania e poi gridare “viva Sant’Agata”? Come può farlo chi imbratta, chi vende prodotti alimentari scaduti, getta immondizie ad ogni angolo di strada e di campagna? Perché i tanti onesti devono pagare l’umiliazione della cattiva fama a causa dell’irresponsabilità di alcuni irresponsabili? Se si deve ricorrere alle telecamere per controllare la nostra coscienza, se qualcuno deve vigilare sul nostro comportamento nella cura dei beni collettivi quali strade da tenere pulite, luce e acqua, vuol dire che non assomigliamo ancora a San Pietro che curò Agata nel carcere.

Sogniamo insieme un modo diverso di amare la città: amare i beni di tutti è una forma di carità sociale. Non diciamo mai “siamo in Sicilia”, lasciamoci alle spalle quei passaggi del noto romanzo “Il Gattopardo” con quella espressione rassegnata del Principe di Salina al delegato del governo piemontese: “Il sonno, caro Chevalley è ciò che i siciliani vogliono”. No: i siciliani vogliono la qualità della vita e hanno smentito quella frase, con i loro Pino Puglisi, Rosario Livatino, Piersanti Mattarella, Pippo Fava, Biagio Conte. Sono gli esempi del prendersi cura, sono la vera immagine della Sicilia, non quella degli stereotipi che creano alibi. Sono quelli a cui voi giovani soprattutto, chiamati dal papa a Lisbona a brillare della luce del Cristo, siete chiamati ad ispirarvi. Prendiamoci cura della nostra città, tutti, perché il nobile nome di “cittadini” che risuona al passaggio di sant’ Agata, sia confermato dalla coscienza pura di chi dice che ha fatto tutto il possibile per la sua città e perciò può gridare: “Viva Sant’ Agata”. Vogliamo essere insieme buoni cittadini e devoti di sant’ Agata, mai una sola cosa senza l’altra”.

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