“Migranti avevano allucinazioni e deliravano”

Medici senza frontiere racconta lo sbarco del 3 febbraio a Lampedusa

“Non riuscivano nemmeno a camminare, tanto era il dolore, fisico e psicologico: male allo stomaco, perché avevano bevuto acqua di mare ed alle ossa. Molti avevano allucinazioni e delirio”. Così gli operatori di Medici senza frontiere, descrivono lo stato dei 42 sopravvissuti sbarcati a Lampedusa il 3 febbraio dopo essere stati per 10 giorni alla deriva con 8 cadaveri. Due sono ancora dispersi: un neonato caduto in mare dalle braccia della madre morta e suo zio, che si è tuffato per tentare di recuperarlo.

Msf ha svolto un primo intervento di soccorso psicologico, in collaborazione con le autorità locali e nazionali. Gli operatori sono rimasti con loro per 4 giorni, fornito un telefono per comunicare con le famiglie, una bibbia e un corano per pregare. “Non è stato un naufragio in senso stretto, avevano perso la rotta e sono stati per giorni alla deriva. Pensavano di essere tutti morti, non sapevano nemmeno dove fossero – racconta Marina Castellano, responsabile medico -. Solo uno di loro ci ha raccontato che in quei momenti sapeva di dover essere presente a se stesso perché era l’unica cosa che li poteva salvare. Alla fine un peschereccio ha fornito dell’acqua e chiamato i soccorsi, la guardia costiera li ha salvati e portati a Lampedusa alle 2 di notte del 3 febbraio. Parlando con noi hanno definiti ‘angeli'”.

“Quando le persone restano in mare così tanto tempo è talmente traumatico che molti hanno delirio, allucinazioni – spiega Mara Eliana Tunno, psicologa -. Il nostro intervento è solo un primo soccorso psicologico, per contenere le situazioni gravi, abbiamo un telefono a disposizione per chiamare le famiglie, dare le notizie sui decessi”. “Sono persone anche molto resilienti – aggiunge – E’ stato bello vedere i miglioramenti in due-tre giorni, anche se si tratta di un evento traumatico che porteranno sempre con sé”. Per ogni persona i medici di Msf scrivono un certificato di vulnerabilità, in cui si raccomanda al Centro di attivare un soccorso psicosociale. “L’intervento non si può fermare lì – conclude Tunno -, ci vogliono anni di terapia per guarire da queste cicatrici”. 

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