“Tornare alla normalità sarà la vera emergenza”

di Nuccio Sciacca - Intervista a Federico Amato, medico del reparto Covid e segretario aziendale Cisl dell’ospedale Umberto I di Enna

Dottore Amato cosa ricorda dei primi giorni dell’emergenza Covid?
“In ospedale dapprima con pudore, quasi a vergognarsene, alcuni incominciavano a indossare la mascherina chirurgica in ambulatorio e non stringevano più la mano sentendo però sempre la necessità di giustificare questa precauzione con un sorrisetto di circostanza a chi derideva e a chi ammoniva: “Guarda che così generi panico immotivato”. All’improvviso però le parole “Paziente 0”, “Zona rossa” e lockdown in un batter d’occhio cambiarono radicalmente la nostra vita, stravolgendo il nostro quotidiano in modo inaspettato e imprevedibile e la prima domenica di marzo all’Umberto I di Enna iniziavano freneticamente i preparativi per ospitare i malati Covid. Non dieci o venti posti, ma addirittura 100 per far fronte all’emergenza, così come prospettata nelle stime dell’assessorato. In quel momento tutti ci siamo resi conto che il coronavirus si era trasformato da argomento da chiacchiere da bar a una realtà concreta pronta a impadronirsi delle nostre vite. E in fretta e in furia, così come si scavano trincee e si alzano reticolati prima della battaglia si apriva il reparto Covid 1 e chi tra noi supportava i colleghi delle Malattie infettive durante i turni notturni sentiva la marea montante dei ricoveri. Telefonate da pronto soccorso vicini e lontani che cercavano disperatamente un posto letto, il cigolio delle barelle che accompagnavano i pazienti dalla accettazione al reparto, i primi morti”.
Poi arriva una telefonata della Direzione sanitaria…
“Sì, era il 26 di marzo e mi chiedono di far parte dell’equipe del Covid 2 a partire dall’indomani. Altri trenta posti, un’altra trincea per arginare il male dilagante. Reparto aperto e riempito in meno di 24 ore e gestito da tre oculisti, due dermatologi e due cardiologi e con solo il primario Mauro Sapienza con esperienza come infettivologo e internista. Un gruppo di giovani infermieri ricchi di entusiasmo ma alle prime armi guidati da un capo sala di provata competenza. Sulla carta una armata Brancaleone; eppure per una strana alchimia che ha mescolato voglia di fare, orgoglio professionale e spirito di corpo tutto ha preso a funzionare perfettamente. All’improvviso attraverso il fonendoscopio i polmoni cominciavano a parlarti sempre più chiaramente, le tac polmonari non erano più oscure immagini al computer. Imparavi ad adoperare farmaci di cui non avevi mai sentito parlare prima. E si passava le notti in chat a scambiarsi articoli e note Aifa e a discutere di una malattia che nessuno veramente conosceva. Al centro di tutto il primario, sempre il primo a entrare e l’ultimo a uscire a sera inoltrata. Un medico dalla grande esperienza, con quella simpatia umana condita dalla verve di catanese verace. E finalmente dopo Pasqua abbiamo tutti percepito che la marea rientrava, nessun nuovo ricovero mentre le dimissioni erano sempre più numerose”.
Ora che l’emergenza sembra scemare arriva però il tempo delle riflessioni di chi tutto questo lo ha vissuto da dentro accanto ai pazienti.
“L’epidemia si sta spegnendo (o per lo meno così pare) e possiamo dire di avere tratto da questo breve e intenso periodo una esperienza umana e professionale che ci accompagnerà per sempre e dalla quale dovremmo trarre spunto per affrontare la nuova emergenza che ci aspetta e che si chiama ‘ritorno alla normalità’, ovvero dell’impegno che tutti dobbiamo spendere per riappropriarci delle nostre vite. Una sfida a cui nessuno può sottrarsi. La pandemia ha avuto la capacità di cristallizzare, trasferendo in un limbo la quotidianità della malattia; quasi come se la gente non si ammalasse più. Ma così non è stato: parti, fratture, ictus e addomi acuti hanno continuato a venire fuori. Tanto per citare le urgenze più frequenti. Per non parlare di tutti quelli che dopo lunghe attese si sono visti disdire appuntamenti per visite, indagini strumentali e interventi programmati da lungo tempo e rimandate non si sa a quando. Pazienti cronici che necessitano di controlli regolari (come gli oncologici o i cardiopatici). A tutto questo arretrato occorre dare delle risposte in tempi accettabili senza allungare le liste di attesa, già di tutto rispetto in tempi normali. E secondo me questo passa innanzitutto da una riorganizzazione in termini provinciali della nostra sanità, e vorrei soffermarmi proprio sul termine provinciale, ovvero capace di dare a tutti le stesse opportunità di ricevere soddisfacenti cure. Sia agli abitanti di piccole comunità montane sia a chi vive nelle città più grandi. E questa precisazione va fatta perché in questo particolare momento storico, così come peraltro in passato, si è verificato un fenomeno strano e particolare: la linea di confine che separa i vari comuni sede di ospedali, magicamente ha individuato i comportamenti degli operatori sanitari mettendo da una parte i bravi con investimenti e strutture nuove e gli altri dalla parte opposta. La distribuzione delle risorse deve, invece, essere fatta secondo criteri oggettivi che tengano conto del bene comune. La recente esperienza ci ha insegnato che è necessario accorpare le specialità in modo da potere ottenere una sinergia di azione sui pazienti più complessi che necessitano di elevata intensità di cura e ha dimostrato pure che per garantire a tutti la stessa opportunità di accesso alle cure si deve potenziare il territorio. Dove potenziare significa soprattutto integrare territorio e ospedale in modo che diventino da realtà contrapposte a un’unica modalità di cura che si continua nel tempo e nei modi per farsi carico di chi ha bisogno nei modi migliori e più facilmente fruibili. Forse una soluzione sarebbe quella di passare da quattro ospedali distinti a un unico ospedale articolato su quattro sedi (la formula degli ospedali riuniti) che permetterebbe più agevolmente di distribuire le risorse sul territorio secondo le necessità del momento. Così come è avvenuto durante l’emergenza Covid. Si è concentrata a Enna la cura dei pazienti infetti, e con le procedure corrette non si è diffuso il contagio nel territorio cittadino, demandando il non Covid ad altre sedi. E’ necessario insomma superare logiche ragionieristiche (peraltro male applicate) che hanno privato il nostro territorio di risorse importanti a vantaggio delle aree metropolitane che invece concentrano servizi e strutture (anche nella sanità privata) a scapito del territorio della Sicilia centrale; concentrazione stigmatizzata recentemente anche da una sentenza della Corte dei conti”.

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