VENEZIA – Filippo Turetta è stato condannato all’ergastolo senza attenuanti generiche per “l’efferatezza dell’azione, della risolutezza del gesto compiuto e degli abietti motivi di arcaica sopraffazione che tale gesto hanno generato: motivi vili e spregevoli, dettati da intolleranza per la libertà di autodeterminazione della giovane donna, di cui l’imputato non accettava l’autonomia delle anche più banali scelte di vita”. Lo scrive la Corte d’Assise di Venezia nella motivazione della sentenza, pronunciata il 3 dicembre scorso nei confronti dell’assassino di Giulia Cecchettin.
Nella sua confessione Filippo Turetta “si è limitato ad ammettere solo le circostanze per le quali vi era già ampia prova in atti d’altra parte”, e questa condotta “è in linea con il contegno tenuto in sede di primo interrogatorio, quando egli non solo ha sottaciuto ma ha apertamente mentito in ordine a diverse, anche gravi, circostanze poi emerse a seguito delle accurate indagini svolte”. “Dalle intercettazioni delle conversazioni occorse in carcere tra lui e i genitori – prosegue la sentenza – si evince chiaramente come egli fosse a conoscenza del fatto che, oltre agli elementi fino ad allora emersi, vi era molto altro a suo carico, eppure si è guardato bene dal riferirne in sede di interrogatorio”.
Filippo Turetta ha mantenuto “lucidità e razionalità” dopo aver ucciso Giulia Cecchettin, con la “chiara e innegabile volontà di nascondere il corpo in modo quantomeno da ritardarne il ritrovamento”. La Corte d’Assise definisce “accurata” l’operazione di occultamento del cadavere. “La scelta del luogo in cui abbandonare il cadavere – aggiungono – la distanza rispetto alla zona in cui si è consumato il delitto, le modalità in cui il corpo è stato lasciato, sono elementi che fanno ritenere integrati sia l’elemento oggettivo sia quello soggettivo del reato”.
La dinamica dell’omicidio di Giulia Cecchettin non permette di “desumere con certezza, e al di là di ogni ragionevole dubbio”, che Filippo Turetta volesse “infliggere alla vittima sofferenze gratuite e aggiuntive”, e “non è a tal fine valorizzabile, di per sé, il numero di coltellate inferte”. Lo spiega la Corte D’Assise di Venezia escludendo l’aggravante della crudeltà per la condanna all’ergastolo dell’omicida. Per i giudici, aver inferto 75 coltellate non sarebbe stato “un modo per crudelmente infierire o per fare scempio della vittima”, ma “conseguenza della inesperienza e della inabilità” di Turetta.
Esaminando la videoregistrazione delle fasi dell’omicidio, il collegio giudicante nota che emergono colpi ravvicinati, rapidi e “quasi alla cieca”, e quindi “tale dinamica, certamente efferata”, si ritiene non “sia stata dettata, in quelle particolari modalità, da una deliberata scelta dell’imputato”. Turetta per i giudici “non aveva la competenza e l’esperienza per infliggere sulla vittima colpi più efficaci, idonei a provocare la morte della ragazza in modo più rapido e pulito”, cosi ha continuato a colpire fino a quando si è reso conto che Giulia “non c’era più”.
Ha dichiarato di essersi fermato “quando si è reso conto che aveva colpito l’occhio: ‘Mi ha fatto troppa impressione’, ha dichiarato. Orbene, considerata la dinamica complessiva… non si ritiene che la coltellata sull’occhio sia stata fatta con la volontà di arrecare scempio o sofferenza aggiuntiva”. Anche i punti delle ferite causate dalle coltellate “appaiono frutto di azione concitata, legata all’urgenza di portare a termine l’omicidio”, per cui non sarebbero un elemento “significativo della sussistenza, in capo all’imputato, di volontà di voler infliggere in danno della vittima sofferenze aggiuntive e gratuite, necessaria al fine di poter ritenere integrata l’aggravante della crudeltà”.
La Corte d’Assise di Venezia ha anche escluso dalle aggravanti il reato di stalking: “E’ pacifico che le condotte del Turetta abbiano oggettivamente e innegabilmente carattere persecutorio, e siano di per sé in astratto idonee a ingenerare nella vittima uno stato di ansia e di paura e cosi ad integrare la materialità del reato, ma l’aggravante contestata è espressamente circoscritta al periodo ‘in prossimità e a seguito del termine della relazione intrattenuta’”. La Corte non esclude quindi ciò che viene contestato dall’accusa ma sostiene che deve “avere riguardo a tale cornice temporale”.
Per i giudici, oltre all’aspetto cronologico, lo stalking viene meno anche “alla luce di tutti gli atti raccolti nel corso delle indagini, soprattutto alla luce delle dichiarazioni rese dai familiari e dalle persone più vicine alla vittima, non si ravvisano elementi anche solo sintomatici che consentano di ritenere in concreto sussistente in capo a Giulia Cecchettin il contestato ‘grave stato di ansia, turbamento e paura anche per la propria incolumità'”. Poi “il padre della vittima, Gino Cecchettin, all’indomani della scomparsa della figlia e prima ancora di avere elementi sulla sorte della stessa, aveva riferito di non aver percepito alcun disagio in Giulia” circostanza confermata “anche quando è stato sentito dal pubblico ministero in data 20 febbraio 2024”.