Anche inquinamento e fattori genetici alla base dei contagi

Così si spiegherebbe l'estrema variabilità con cui si manifesta il Covid

ROMA – I pazienti di coronavirus nelle aree ad alto inquinamento prima della pandemia hanno maggiori probabilità di morire a causa dell’infezione rispetto a pazienti che hanno vissuto in aeree più pulite degli Stati Uniti. E’ quanto emerge da un’analisi condotta dalla Harvard University T.H. Chan School of Public Health, in base al quale elevati livelli di particelle PM 2.5 sono associate a tassi di moralità più elevati per il coronavirus.
“I risultati di questo studio suggeriscono che un’esposizione prolungata all’inquinamento aumenta la vulnerabilità a sperimentare” i risultati peggiori dal coronavirus, affermano gli autori dello studio, secondo quanto riportato dal New York Times. Lo studio di Harvard è il primo a livello nazionale americano a mostrare un link statistico rivelando un'”ampia sovrapposizione” fra le morti da coronavirus e altre malattie associate all’esposizione di lungo termine alle PM 2.5.
A spiegare l’estrema variabilità con cui si manifesta l’infezione da Covid-19, che va dalla mancanza di sintomi alla sindrome influenzale fino alla polmonite acuta, potrebbero esserci anche dei fattori genetici che predispongono alla malattia e alle sue manifestazioni più o meno gravi.
Uno studio italiano, coordinato dall’università di Siena, ha individuato 258 varianti del gene Ace2, che funge da recettore del virus, di cui in particolare 49 vanno tenute d’occhio. Alla ricerca, pubblicata su MedRxiv, sito che raccoglie i lavori che non hanno superato ancora il vaglio della comunità scientifica, hanno partecipato anche l’Istituto superiore di sanità, l’ospedale Bambino Gesù di Roma e l’università di Torino.
“Alla base della grande variabilità clinica del Covid-19 non possono esserci solo l’età e la presenza di altre malattie. Noi pensiamo che vi sia una differenza genetica che possa spiegarlo”, dice Alessandra Renieri, coordinatrice della ricerca.
Per dimostrarlo i ricercatori hanno usato il materiale genetico raccolto attraverso il Network dei genomi italiani (Nig), con cui sono state analizzate centinaia di varianti del gene Ace2, utilizzato dal virus SarsCov2 come ospite per farsi strada nella cellula umana. “Abbiamo così identificato 258 varianti genetiche di Ace2, di cui 49 hanno con un impatto sulle proteine, e che quindi possono avere delle conseguenze ai fini della malattia”, continua Renieri.
Tra queste ad esempio ve ne sono tre che sono assenti dalla popolazione asiatica, e che potrebbero influenzare il modo in cui si stabilizza la proteina del virus. “Vi sono alcune varianti presenti in alcune popolazioni e assenti in altre, che potrebbero avere un effetto sui sintomi clinici”, così variabili anche da un paese all’altro.
Una conferma potrebbe arrivare dall’altro studio partito a marzo, e sempre coordinato dall’università di Siena, con cui verranno raccolti campioni genetici di 2000 malati di Covid-19, per sequenziare il loro genoma, in modo da trovare anche le varianti genetiche più rare e fare un raffronto con i risultati di questo primo lavoro.

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