Migranti uccisi e violentati in Libia, catturati tre torturatori a Messina

Gli atroci racconti dei profughi rinchiusi nei campi di prigionia prima di partire per la Sicilia: "Vivevamo in lager disumani"

PALERMO – “Tutte le donne che erano con noi sono state ripetutamente violentate da due libici e tre nigeriani che gestivano la struttura. Eravamo chiusi a chiave. I due libici e un nigeriano erano armati di fucili mitragliatori, mentre gli altri due nigeriani avevano due bastoni”. E’ il racconto di una delle vittime dei carcerieri del campo di prigionia di Zawyia, in Libia, fermati dalla Dda di Palermo nell’hotspot di Messina, dove erano stati trasferiti una volta sbarcati a Lampedusa.
I tre sono accusati di sequestro di persona, tratta di esseri umani e tortura. Avrebbero trattenuto in un campo di prigionia libico decine di profughi pronti a partire per l’Italia e rilasciati solo dopo il pagamento di un riscatto. I migranti hanno raccontato di essere stati torturati, picchiati e di aver visto morire compagni di prigionia.
Si tratta di Mohammed Condè, detto Suarez, 27enne originario della Guinea, Hameda Ahmed, egiziano di 26 anni, e Mahmoud Ashuia, egiziano 24enne. Il capo dell’organizzazione si chiama Ossama, sarebbe lui a gestire il campo di prigionia di Zawyia.
I migranti, arrivati a Lampedusa il 7 luglio scorso dopo essere stati soccorsi dalla nave Mediterranea, hanno riconosciuto i tre carcerieri dalle foto segnaletiche mostrate loro dalla polizia, che, dopo ogni sbarco, fa visionare ai profughi le immagini di migranti giunti in Italia in viaggi precedenti proprio alla ricerca di carcerieri o scafisti.
I fermati erano arrivati in Italia qualche mese prima. Condè aveva il compito di catturare, tenere prigionieri i profughi e chiedere ai familiari il riscatto. Solo dopo il pagamento le vittime potevano proseguire il loro viaggio. Era Condè a dare ai profughi il cellulare per chiamare a casa e chiedere il denaro. Ahmed e Ashuia sarebbero gli altri due carcerieri.
Il capo della banda vive ancora in Libia. Per chiedere il riscatto alle famiglie dei prigionieri usavano un “telefono di servizio”, tramite il quale migranti potevano contattare i loro congiunti, alla presenza dei carcerieri, e convincerli a pagare il riscatto. Ai parenti venivano inviate le foto con le immagini delle violenze subite dai propri cari. Chi non pagava veniva ucciso o venduto ad altri trafficanti di uomini; chi pagava, veniva rimesso in libertà, ma con il rischio di essere nuovamente catturato dalla stessa banda e di dover versare altro denaro ai carcerieri di Zawyia.
“Le condizioni di vita all’interno di quella struttura erano inaudite. Ci davano da bere acqua del mare – raccontano – e, ogni tanto, pane duro. Noi uomini, durante la nostra permanenza venivamo picchiati al fine di sensibilizzare i nostri parenti a pagare denaro in cambio della nostra liberazione. Durante la prigionia abbiamo avuto modo di vedere che gli organizzatori hanno ucciso a colpi di pistola due migranti che avevano tentato di scappare”.
E ancora: “Ci davano da mangiare solo una volta al giorno. Tutti i giorni venivamo, a turno, picchiati brutalmente e torturati con la corrente dai nostri carcerieri”.
Per il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio, che ha avviato l’indagine, “è la conferma delle inumane condizioni di vita all’interno dei capannoni di detenzione libici e la necessità di agire, anche a livello internazionale, per la tutela dei più elementari diritti umani”.

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