Si facevano restituire gli stipendi: condannati negozianti di Etnapolis

La Cassazione conferma: era estorsione quella di Pietro e Paolo Giunta nei confronti della commesse. La giustificazione: "Colpa della crisi"

ROMA – Si facevano ridare parte dello stipendio dalle commesse impiegate nei loro negozi nel centro commerciale ‘Etnapolis’ a Belpasso, alle porte di Catania, minacciandole di non assumerle se erano in prova e di licenziarle se il contratto già lo avevano. Per questo la Cassazione ha confermato la condanna per estorsione – la cui entità non è precisata – nei confronti di Pietro e Paolo Giunta, due imprenditori che avevano punti vendita di marchi affermati e che con il ‘ricatto occupazionale’ avevano costretto cinque commesse a restituire loro tutti i mesi, dall’aprile del 2006 all’aprile del 2013, somme che variavano dai 300 ai 500 euro.
In Cassazione i due imputati si sono difesi sostenendo che la crisi li aveva costretti a tal punto e se avessero pagato per intero le retribuzioni la loro attività economica ne avrebbe risentito fino ad arrivare alla chiusura con danno sia dei lavoratori sia per loro stessi “che avrebbero perso, a loro volta, il lavoro e quell’attività economica che anche la Costituzione protegge e tutela”.
Ma gli ‘ermellini’ hanno escluso che la “libertà morale” delle persone o meglio “l’autodeterminazione” possa essere “sacrificata” per “salvare una attività economica” tanto più che la stessa Costituzione, con l’art. 41, impone che l’impresa “non può svolgersi in modo da recare danno alla libertà e alla dignità umana”.
I supremi giudici inoltre ricordano che qualora “davvero gli imputati non avessero avuto altra alternativa che ‘sottopagare’ le dipendenti” avrebbero potuto ricorrere “alla luce del sole a tutti quegli accordi (compresa la riduzione salariale) che lo stato di crisi autorizza e legittima”.
La vertenza di lavoro delle cinque lavoratrici che hanno avuto il coraggio di denunciare è stata risolta con accordi sindacali e la Cassazione ricorda che altri dipendenti dei Giunta avevano invece negato “di essere stati costretti dagli imputati a restituire parte della loro retribuzione”.

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