“Borsellino, Stato garanzia a depistaggio”

La commissione regionale antimafia sulla strage di via D'Amelio: "Si va ben oltre i nomi noti". La figlia: "Mio padre lasciato solo da vivo e da morto"

PALERMO – “Uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria”, aveva scritto lo scorso giugno la Corte d’asside di Caltanissetta nelle motivazioni del Borsellino quater; oggi la Commissione regionale antimafia, presieduta da Claudio Fava, dice che “La stessa mano, non mafiosa, che accompagnò Cosa nostra nell’organizzazione della strage di via D’Amelio potrebbe essersi mossa, subito dopo, per determinare il depistaggio e allontanare le indagini dall’accertamento della verità”.
La relazione, approvata all’unanimità, conclude i lavori sui depistaggi nella strage palermitana in via Mariano d’Amelio, dove il 19 luglio 1992 persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della polizia di Stato.
Alla conferenza stampa di presentazione delle 78 pagine del documento, c’era anche Fiammetta Borsellino, la battagliera figlia del magistrato che il 18 luglio scorso è stata la prima ad essere sentita dalla stessa Commissione: “Mio padre – ha detto intrattenendosi coi giornalisti – è stato lasciato solo da vivo e da morto. Nel depistaggio c’è stata una responsabilità collettiva dei magistrati che hanno avuto comportamenti ‘contra legem’ e che ad oggi non sono stati mai perseguiti né sul piano disciplinare né su quello giudiziario. C’è chi ha lavorato nel periodo del depistaggio e dimostrato di non aver capito nulla di mio padre”.
Le pagine dell’Antimafia lasciano poco all’interpretazione: “E’ certo – si legge – il contributo di reticenza che offrirono a garanzia del depistaggio, consapevolmente o inconsapevolmente, non pochi soggetti tra i ranghi della magistratura, delle forze di polizia e delle istituzioni nelle loro funzioni apicali”, spiegando che “si va ben oltre i nomi noti dei tre poliziotti imputati nel processo in corso a Caltanissetta, e dei due ‘domini’ dell’indagine (scomparsi), cioè il procuratore capo Tinebra e il capo del gruppo d’indagine ‘Falcone-Borsellino’, Arnaldo La Barbera”.
Poi Fava passa ad esaminare il ruolo dei servizi segreti, che definisce “pervasivo: la mano che sottrasse l’agenda rossa di Borsellino non è una mano mafiosa. Il primo atto della procura di Caltanissetta, contro la legge, è la richiesta al Sisde di dirigere nella fase iniziale le indagini su via D’Amelio. La procura nissena all’indomani della strage di Capaci aveva scelto, per 57 giorni, di non ascoltare Paolo Borsellino e poi, due ore dopo la strage di via D’Amelio, ha scelto di affidarsi al Sisde. L’impulso è partito dal procuratore di Caltanissetta, ma si suppone che gli altri magistrati ne fossero a conoscenza”.
Sulla collaborazione di Vincenzo Scarantino, Fava trova “inquietante non tanto la riconosciuta falsità delle dichiarazioni del ‘pentito’, suscettibili di essere disvelate, bensì l’apparizione del personaggio in quanto tale, la sua immediata irruzione nel processo che probabilmente doveva servire a escludere ogni sospetto che mandanti potessero essere anche soggetti estranei alla mafia. Così venivano appagate le ansie e le aspettative di verità della gente per la pronta scoperta di mandanti ed esecutori, tutti mafiosi, e si esorcizzava l’incubo di indicibili partecipazioni diverse e occulte”.

scroll to top