Stipendi d’oro, c’è dietrofront Micciché Musumeci: ‘Unità’. E Figuccia si pente

Il presidente dell'Ars dà mandato per arrivare a un accordo con i sindacati. Il governatore ammonisce: "Bisogna tenere conto della crisi economica".  L'ex assessore: "Ho sbagliato"

PALERMO – Incassate le dimissioni dell’ assessore Vincenzo Figuccia e alle prese con le polemiche sull’eventuale ritorno dei compensi d’oro per i superburocrati dell’Assemblea siciliana, governo e maggioranza provano a ridimensionare il colpo. E lo fanno proprio sul terreno che ha portato il deputato Udc a lasciare ieri la giunta: la questione del tetto pari a 240 mila euro degli stipendi dei dirigenti dell’Ars, introdotto tre anni fa e in scadenza a fine mese.
A sorpresa, dopo gli attacchi di Figuccia che per questo era stato sconfessato dal suo partito e scaricato dai capigruppo del centrodestra con una nota congiunta, il presidente dell’Ars, Gianfranco Miccichè che s’era detto d’accordo al ripristino dei vecchi emolumenti, ha fatto retromarcia.
E presiedendo il Consiglio di presidenza dell’Ars, all’unanimità, ha dato mandato al deputato-questore Giorgio Assenza, per “l’immediato avvio delle trattative sindacali al fine di arrivare entro 60 giorni ad un accordo che possa ripristinare il tetto attuale dei 240 mila euro o, quantomeno, introdurre dei limiti alle indennità stipendiali previste prima della riduzione”.
In mattinata, il governatore Nello Musumeci, incontrando la stampa per il brindisi di fine anno, aveva fatto intendere di volere chiudere un “caso” diventato scomodo: “Non c’è alcuna crisi politica per le dimissioni di Figuccia, anche perché il suo partito ha confermato la fiducia alla maggioranza”.
E sul tema specifico era stato tranchant: “In una situazione di grave crisi economica, gli stipendi già dignitosi non devono essere aumentati”. Una linea, ha specificato Musumeci, che vede il governo compatto. Del resto una sentenza emessa nel maggio scorso (n.124) dalla Corte Costituzionale, rispolverata da chi ssegue la questione da vicino, precisa che “l’imposizione di un limite massimo alle retribuzioni pone rimedio alle differenziazioni, talvolta prive di una chiara ragion d’essere, tra i trattamenti retributivi delle figure di vertice dell’amministrazione” e tale limite “si delinea come misura di razionalizzazione, suscettibile di imporsi a tutti gli apparati amministrativi”.
Per i giudici “la disciplina in esame, pur dettata dalla difficile congiuntura economica e finanziaria, trascende la finalità di conseguire risparmi immediati e si inquadra in una prospettiva di lungo periodo” e “si configura come misura di contenimento della spesa, assimilabile agli altri capillari interventi che il legislatore ha scelto di apprestare negli ambiti più disparati”.
Per la Consulta il tetto di 240 mila euro che fu stabilito dal legislatore nazionale “non è inadeguato in quanto si raccorda alle funzioni di una carica di rilievo e prestigio indiscussi”. E “proprio in virtù di tali caratteristiche esso non viola il diritto al lavoro e non svilisce l’apporto professionale delle figure più qualificate, ma garantisce che il nesso tra retribuzione e quantità e qualità del lavoro svolto sia salvaguardato anche con riguardo alle prestazioni più elevate”.
Inoltre, “nell’esercizio della sua discrezionalità, il legislatore ben potrebbe, secondo un ragionevole contemperamento dei contrapposti interessi, modificare nel tempo il parametro prescelto, in modo da garantirne la perdurante adeguatezza alla luce del complessivo andamento della spesa pubblica e dell’economia”. Figuccia allarga le braccia: “Solo gli stupidi non cambiano idea: mi sono sbagliato, Miccichè non è uno stupido”.

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